La fibrillazione atriale è un’aritmia (disturbo del ritmo cardiaco) molto frequente, che compare soprattutto nelle persone anziane. Infatti si osserva raramente al di sotto dei 40 anni, mentre è presente nel 3-4% dei soggetti tra i 60 e gli 80 anni e nel 10% circa di quelli al di sopra degli 80 anni.
Nella fibrillazione atriale gli atri sono percorsi da numerose onde elettriche che si propagano nelle loro pareti continuamente e in maniera totalmente irregolare. Accade quindi che un singolo punto dell’atrio sia percorso da 350 – 500 onde elettriche al minuto.
E’ facile quindi comprendere che gli atri, proprio perché attivati in maniera troppo rapida e disorganizzata, non riescono a contrarsi efficacemente. Inoltre, il nodo atrio-ventricolare che è continuamente bombardato da stimoli irregolari – pur funzionando da filtro e lasciando passare solo una parte di questi stimoli – attiva a sua volta il fascio di His e quindi i ventricoli in maniera rapida e irregolare. Questo spiega perché il battito cardiaco di persone con fibrillazione atriale è veloce e aritmico. Il cuore dunque durante la fibrillazione atriale batte in maniera irregolare e più veloce del normale e gli atri non si contraggono efficacemente. A volte, nei casi nei quali il filtro del nodo atrio-ventricolare è particolarmente elevato (frequentemente negli anziani) la frequenza cardiaca può essere anche lenta, ma sempre irregolare. Tutto ciò ha due importanti conseguenze: 1) la funzione di pompa del cuore è meno efficiente 2) Possono formarsi dei trombi negli atri
Pompa meno efficiente
La quantità di sangue che viene pompata nel cuore in un minuto (gittata cardiaca) è del 20-30% minore in ritmo sinusale. La fibrillazione atriale è quindi particolarmente pericolosa nei pazienti con cuore già ammalato, in quanto le conseguenze di una minore gittata cardiaca possono essere più gravi.
Trombi negli atri
Il sangue tende a ristagnare negli atri, soprattutto in due loro piccole appendici, le auricole. E’ qui che il sangue può coagulare formando i cosiddetti trombi. Queste formazioni possono distaccarsi, in tutto o in parte, dando origine ad emboli, piccole masse di sangue coagulato, che andando in circolo, vanno ad occludere delle arterie periferiche, bloccando localmente il flusso del sangue. La maggior parte degli emboli che si distaccano dall’atrio sinistro, colpiscono il cervello causando lesioni di varia gravità (attacchi ischemici transitori, ictus e anche morte). La fibrillazione atriale può essere causata da ogni tipo di malattia cardiaca (malattie delle valvole e del muscolo cardiaco, arteriosclerosi, ecc) ma anche di malattie di altri organi che si ripercuotono sul cuore (malattie polmonari, malattie della tiroidee, ipertensione arteriosa). In molti casi (dal 10 al 30 % del totale) non vi è alcune causa apparente dell’aritmia.
La fibrillazione atriale si definisce acuta al suo esordio. In genere la frequenza cardiaca è molto elevata (130 – 160 battiti al minuto) e sono presenti sintomi quali palpitazioni, malessere, affanno, ecc. L’aritmia in questi casi tende a scomparire da sola nel 50 – 75% dei casi entro 24 ore (Fibirllazione Parossisitica). Ma è in genere opportuno interromperla prima, per far cessare i sintomi ed evitare la possibilità che diventi cronica. Quando la fibrillazione atriale dura da oltre 48 ore si definisce persistente. Lasciata a sé stessa può durare indefinitamente, anche per tutta la vita e diviene “cronica”. Dopo un certo tempo, in genere, la fibrillazione atriale non viene più avvertita, in quanto la frequenza cardiaca rallenta e l’organismo si adatta all’aritmia. Una forma particolare è la cosiddetta fibrillazione atriale parossistica in cui l’aritmia compare e si interrompe spontaneamente, ma tende a ripresentarsi nel tempo con frequenza e durata variabili. E’ una forma che può essere particolarmente fastidiosa in quanto i sintomi che essa provoca possono comparire inaspettatamente in qualunque momento.
I Rimedi
La Cardioversione: Il trattamento ideale della fibrillazione atriale persistente (cioè che non sblocca da sola) consiste nella sua eliminazione e nel ripristino del normale ritmo sinusale, mediante farmaci o terapia elettrica (cardioversione). I farmaci, somministrati per bocca o per via endovenosa, sono efficaci solo se la fibrillazione atriale è insorta da poco. Nella fibrillazione atriale di lunga durata è in genere necessario ricorrere alla cardioversione elettrica. Si tratta di una scarica elettrica che interrompe la fibrillazione, permettendo il riemergere del ritmo sinusale. La scarica viene erogata attraverso delle piastre appoggiate sul torace, oppure attraverso degli elettrodi (piccoli fili elettrici) inseriti temporaneamente, attraverso una vena, all’interno del cuore. Nel primo caso (cardioversione transtoracica), l’energia necessaria è elevata ed è necessario, per evitare il dolore della scossa, ricorrere ad una breve anestesia generale. Nel secondo caso (cardioversione endocavitaria) si usano energie basse, che non richiedono anestesia. Entrambe le metodiche sono molto efficaci, permettendo il ripristino del ritmo sinusale in circa il 95% dei casi. E’ importante tenere presente che per un periodo precedente ed uno successivo alla cardioversione è necessario seguire una terapia anticoagulante (vedi dopo), per evitare che eventuali trombi formatisi negli atri possano distaccarsi al momento della ripresa della contrazione degli atri stessi. Purtroppo la fibrillazione atriale, una volta interrotta, tende spesso a ripresentarsi, dopo periodi di tempo più o meno lunghi. Per questo dopo la sua interruzione si rende in genere necessaria una terapia preventiva con farmaci appositi, detti “antiaritmici”. Nessuno dei farmaci antiaritmici oggi disponibili ha un’efficacia completa, per cui il rischio di una ripresa della fibrillazione atriale è sempre possibile. È necessario quindi essere preparati a questa possibilità e ad effettuare tentativi con farmaci diversi prima di trovare quello adatto al proprio caso. Vi sono soggetti in cui una frequenza cardiaca troppo lenta può favorire la recidiva della fibrillazione atriale. In questi casi per prevenire la recidiva dell’aritmia può essere necessario l’impianto di un pacemaker, un piccolo apparecchio in grado di stimolare il cuore alla frequenza desiderata. Altre volte può essere utile eseguire l’ablazione della fibrillazione atriale che consiste nel provocare, attraverso dei cateteri inseriti all’interno del cuore, delle piccole bruciature all’interno degli atri, che ostacolano il propagarsi delle onde elettriche anomale e quindi impediscono il mantenimento dell’aritmia. Si può comunque anche convivere con la fibrillazione atriale. Infatti nei casi in cui l’aritmia è presente da molto tempo o i farmaci antiaritmici si sono rivelati inefficaci o mal tollerati, si può decidere, assieme al proprio medico, di non tentare di interromperla. In questi casi si può comunque ottenere un buon risultato cercando di controllare adeguatamente la frequenza cardiaca e di ridurre il rischio di embolie mediante una terapia anticoagulante continuativa.
Controllo della frequenza cardiaca. Per ottenere che la frequenza cardiaca non sia troppo elevata, sia a riposo che durante lo sforzo, si usano farmaci (digitale, beta – bloccanti, calcio – antagonisti) che agiscono sul nodo atrio-ventricolare riducendo il numero di impulsi elettrici che, attraverso di esso, raggiungono i ventricoli. Se questi farmaci non sono sufficienti o sono mal tollerati, si può decidere di interrompere la connessione elettrica tra atri e ventricoli andando a “bruciare” il fascio His e impiantando un pacemaker che stimolerà i ventricoli in maniera regolare, alla frequenza desiderata. Questa modifica, definita ablazione del nodo AV, è particolarmente utile nei pazienti che tollerano male il battito cardiaco rapido e irregolare dovuto alla fibrillazione atriale e non rallentabile con i farmaci. La fibrillazione atriale può causare la formazione di trombi negli atri, con possibili conseguenti embolie, responsabili di gravissimi danni. Per evitare ciò possono essere utilizzati farmaci anticoagulanti che agiscono rendendo il sangue meno coagulabile. Sono molto efficaci, ma impegnativi da utilizzare. Infatti, il sangue deve essere reso meno coagulabile (per evitare che si formino trombi), ma non troppo (per evitare il rischio di emorragie) La giusta dose del farmaco deve essere quindi stabilita periodicamente in base ad un esame del sangue che ne valuta il grado di coagulabilità. A questo scopo si usa un sistema di misura detto INR (International Normalized Ratio). Una terapia efficace e non pericolosa si ha per valori di INR compresi tra 2 e 3.
Sono oggi disponibili altri tipi di anticoagulanti orali che non necessitano di un controllo periodico del sangue pur essendo altrettanto efficaci.